Stefano Bonazzi è un visionario. Anzi, meglio: è una di quelle persone con cui ti potresti sedere a un tavolino di plastica fuori da un brutto circolo nel pieno della Bassa padana, con le zanzare che ti dissanguano e le auto che passano troppo veloci sulla provinciale, e rimanere lì tutta la notte ad ascoltarlo, grattandoti ogni tanto le punture.
Ciao Stefano, ci racconti a modo tuo chi sei e che cosa fai?
Sono un ex-dark/pasticcere/nerd (in realtà, nerd lo sono ancora), che dodici anni fa decise di investire i soldi del suo primo stipendio in nero per una reflex e da allora non ha più smesso di comporre immagini.
Di giorno lavoro come web master/grafico pubblicitario, mentre le notti si alterno tra la scrittura (il mio primo vero amore), la manipolazione d’immagini e l’assunzione sostanze psicotrope (spesso capita che le tre attività si combinino tra loro).
Quando hai cominciato a scattare?
Quando mi sono reso conto che non avrei potuto sopportare un’altra estate davanti alla Playstation nel delirante tentativo di raggiungere l’ennesimo livello 99 in qualche sconosciuto RPG (ovviamente piratato, in lingua giapponese e senza sottotitoli).
Scherzi a parte, la passione per le immagini e l’arte contemporanea mi accompagna da quando capitai per caso nel mezzo di un’installazione artistica di Ugo Rondinone (avevo appena compiuto diciott’anni, se non ricordo male l’opera si chiamava Spider): fu come trovarsi improvvisamente nudo in mezzo ad una folla, qualcosa di “assoluto”. Svuotato e disorientato, iniziai a piangere come un bambino (ed ero completamente sobrio, giuro). Ancora oggi non riesco a spiegare con esattezza cosa mi prese, so solo che quando uscii mi dissi: «Cavolo, davvero l’arte può fare questo? Perché non provarci, allora?».
Così decisi di provarci.
I grigi, i paesaggi sconfinati e i tuoi soggetti inquietanti fanno pensare a un grande silenzio e a una fiaba barocca bella ma inquietante. Direi quasi a Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Me ne vuoi parlare?
Non ho ancora visto l’ultimo film di Garrone, ma ho adorato i precedenti: so che non mi deluderà. Ma che ne dici di metterci anche un po’ di Lynch? Hai mai visto il suo cortometraggio Rabbit? Certo anche Eraserhead e The Inland Empire sono di casa… sento molto l’influsso dei suoi folli deliri visivi, soprattutto nelle prime serie (The Last Day on Earth e Silent Places). Certo anche i video di Floria Sigismondi e le contorsioni di Bacon hanno influito parecchio.
Quello che cerco di fare, in ogni scatto, è mettere il soggetto (spesso singolo) in una situazione di disagio: spesso si tratta di un ambiente ostile o una fiaba sull’orlo del collasso… adoro le fiabe, penso siano un modo creativo di raccontare la morte ai più piccoli, la verità però, è che poi la maggior parte delle volte, queste storie, continuano a spaventarci anche dopo la pensione.
Questo barocco bello ma inquietante, secondo te, è una caratteristica tipica di noi italiani?
In realtà, per ora, i miei lavori sono sempre stati accostati al filone pop-surrealista che sta spopolando in America negli ultimi anni (da Mark Rayden a Jamie Baldridge per intenderci), è comunque vero che, anche nel nostro paese, la cultura del barocco è radicata nel profondo. Purtroppo anch’io spesso ho la tendenza ad indagare artisti e correnti creative straniere, piuttosto che fermarmi un attimo ad approfondire quello che la mia terra nativa ha da offrire… il mito oltre il confine… penso rientri tra i lati negativi del mio provincialismo, ci sto lavorando…
Nei tuoi lavori non ci sono volti: lo sguardo è un tabù, come nelle superstizioni secondo cui con uno sguardo si può rubare l’anima?
Esatto. Lo sguardo è esplicito: una smorfia parla da sé, un volto è una mappa con riferimenti e indicazioni. Io invece voglio che i miei osservatori si sentano smarriti e disorientati per questo rimuovo tutto. Richiedo uno sforzo d’immaginazione, voglio che la fruizione sia attiva perché credo molto nella capacità di rielaborazione creativa insita in ognuno di noi.
Mi piacciono le storie dai finali rarefatti, allo stesso modo vorrei che anche le mie immagini e i miei scritti lasciassero un senso d’incompiuto, qualcosa d’imperfetto, da colmare in base all’esperienza e alla sensibilità altrui. C’è sempre qualcosa da imparare, se solo ci prendessimo il tempo di ascoltarci.
L’ambientazione del tuo romanzo, A bocca chiusa, è un’estate in provincia, noiosa e caldissima: che cosa hai voluto raccontarci, questa volta?
A bocca chiusa è una fiaba nera in cui l’incomunicabilità dei protagonisti è talmente radicata nelle loro personalità da sfociare in una tragedia concreta. È una storia molto legata ai miei lavori visivi. I volti non sono celati dietro maschere, ma l’apatia emotiva che traspare dalle pagine e dai protagonisti è una macro-maschera lei stessa, un alveolo che ingloba, fagocita e paralizza.
È una storia dura, claustrofobica e alienante. Ci sono aspetti fiabeschi, macabri dettagli e molta fantasia, ma non quella intesa nel senso più tradizionale. Non àncora di salvezza, ma condanna. È il mio modo di far capire al lettore che anche l’immaginazione più innocente, se lasciata libera di evolversi incondizionatamente, può facilmente sfociare in follia.