Da quando il cibo è di moda siamo diventati tutti dei gastrofighetti



Mangiare piace un po’ a tutti, ed è sempre piaciuto. Ma da un paio d’anni a questa parte sembra che il nutrirsi, inteso nel suo senso più ampio e non solo come l’atto di immettere nell’organismo alimenti solidi e semisolidi, ci piaccia molto più del solito. Per rendersene conto non c’è nemmeno bisogno di accedere a Internet, l’habitat naturale della nuova tendenza, il posto in cui il cibo ha mutato nome, assumendo l’epiteto assai fashion di food. Dal canto suo, anche la televisione fornisce prove evidenti del dilagare di questa moda: se un tempo a parlare di cucina c’erano solo Antonellina Clerici con la Prova del Cuoco e Beppe Bigazzi con i suoi consigli su come cucinare il gatto, oggi non è difficile imbattersi in talent-cooking-reality-show di ogni genere. I cuochi sono diventati delle superstar, oltre a condurre i rispettivi ristoranti compaiono spesso e volentieri come intervistati, testimonial di campagne pubblicitarie e giudici di programmi tv. Gli show dedicati al cibo invece, si sono letteralmente moltiplicati.

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Ma negli ultimi anni cosa è cambiato nel mondo della gastronomia (se qualcosa è cambiato) per attirare così tante persone non addette ai lavori? Tentare di interpretare il formarsi di una moda o definire gli eventi scatenanti di una tendenza equivarrebbe a cercare razionalità in un movimento in cui razionalità non c’è. Come per tutti i movimenti che sottostanno al concetto di moda, si tratta di un insieme di eventi e circostanze favorevoli, momenti propizi in cui corpi e idee si sono trovati in accordo, dando inconsapevolmente vita a qualcosa che avrebbe influito sulla vita delle persone per i mesi a seguire. Prendendo consapevolezza di ciò, risulta dunque più interessante analizzare gli effetti piuttosto che le cause. Come è cambiato il nostro modo di approcciarci alla cucina, cosa è nato di nuovo dal food trend e cosa sarebbe potuto nascere.

Come abbiamo già precisato, Internet e i social network, Instagram in particolare, giocano un ruolo fondamentale in tutta la questione. Con uno smartphone sempre a portata di mano e il newsfeed pieno di foto di cibo, va da sé che prima o poi ci si lascerà prendere la mano, soprattutto in un paese come l’Italia in cui, banale ma vero, l’atto di mangiare è sempre stato molto più che un semplice nutrirsi. Ma che c’è di male nel fotografare il proprio piatto? Credo assolutamente niente. Eppure sono moltissimi coloro i quali si dimostrano ostili verso la suddetta pratica, lo stesso Ozmo, artista da noi stimato ed intervistato più volte, ha parlato della questione in modo critico, inserendola tra gli effetti deteriori dei social: “fotografare il proprio piatto e postarlo sui social significa identificarsi con esso e volerlo mostrare al mondo scatenando l’invidia degli altri”.

In fondo c’è del vero anche in quest’affermazione: purtroppo la maggior parte delle persone agisce così, l’interesse reale non è nel cibo quanto piuttosto nell’uniformarsi ad una moda, poco cambia se questa consiste nel fotografare alimenti, tramonti o alberi in fiore. E dico purtroppo perché trovo sia un peccato. È un peccato che il grande fermento intorno all’argomento abbia saputo favorire grandi aziende e produttori senza far luce su altre questioni inerenti il cibo e la gastronomia che sarebbero degne di essere conosciute. Si tratta di cultura e politica, gestione delle risorse, conoscenza dei territori, dei prodotti e delle stagioni, il nostro paese ha una storia ed un patrimonio alimentare incredibile e il fatto di avvicinarvisi così tanto senza palparne realmente la materia è un vero peccato. Quello a cui abbiamo assistito è il formarsi di un esercito di gastrofighetti (termine eccellente coniato da Dissapore), smanettoni dalla geolocalizzazione facile sempre alla ricerca di prodotti BIO e ristoranti che servono prodotti a km zero, probabilmente ignari di cosa questi due concetti significhino veramente.  

credits: www.squadrati.com

credits: www.squadrati.com

Nonostante ciò, per fortuna non siamo tutti uguali e al di là a quelli che non riescono ad andare oltre alla soddisfazione del post su Facebook c’è anche chi ha sviluppato un vivo interesse per il cibo e tutta la cultura ad esso relativa. Prova di ciò è anche la nascita di molte iniziative positive: Cortilia, per citarne una, è una sorta di mercato agricolo online per la vendita e la distribuzione di prodotti artigianali, gente che si occupa mettere in contatto i consumatori con i piccoli produttori locali, offrendo agli ultimi la possibilità di vendere ogni giorno frutta e verdura online (e probabilmente sopravvivere senza essere mangiati dalle grandi catene) e ai primi di beneficiare di prodotti stagionali freschi e di qualità. Parliamoci chiaro, un foodie (o amante del cibo, come preferite) che posta foto con hashtag #healthyfood #kmzero #bio e poi compra solo frutta di plastica al supermercato sotto casa… fa un po’ ridere. 

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Altra questione alquanto dibattuta è la figura dello chef. Oggi i cuochi sono delle celebrità, compaiono in televisione, sono testimonial di campagne pubblicitarie e alcuni li considerano addirittura dei veri e propri artisti. Che il fatto di pensare e preparare un piatto ricercato sia un’arte non c’è dubbio, alcune creazioni sono davvero stupefacenti, è innegabile. Il problema è che spesso la celebrità di queste figure è strumentalizzata dai brand, serve solo ad alimentare una macchina fabbrica soldi. Uno degli esempi più lampanti di questa dinamica è chef Rubio: Gabriele Rubini, classe ‘83, persegue la carriera da rugbista fino al 2011, frequenta un corso di cucina presso il quale si diploma nel 2010 e già nel 2013 è protagonista di un programma tv di DMAX Unti e bisunti, poi scrive due libri di cucina e poi di nuovo in tv come giudice di un altro cooking show I re della griglia. Per quanto Rubio mi stia simpatico, sospetto che questa carriera fulminante non sia esattamente merito del suo talento come cuoco, anzi, guardandolo cucinare ho avuto l’impressione che non fosse per niente un fuoriclasse dei fornelli. È giovane, ha i tatuaggi e il baffo arricciato, parla in romanesco e usa un tono colloquiale molto vicino ad un certo target. Rubio è un’ottima trovata pubblicitaria e non mi stupirei se scoprissi che il baffo hipster è una richiesta di qualche autore televisivo.

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Tutto ciò per ribadire quanto i media e i grandi brand stiano surfando alla grande sull’onda di questa tendenza in un modo che, forse mi sbilancerò nel dirlo, potrebbe fare più male che bene alla nostra cultura. Invece che insistere  verso una spettacolarizzazione del cibo dai tratti molto americani, forse sarebbe più interessante andare a cercare nei luoghi e tra le persone che la cultura l’hanno creata, perché sono loro le persone grazie alle quali oggi esistono gli chef Rubio, i nove negozi Eataly a Tokyo e le eccellenze alimentari italiane.

Vard ‘l Beu è un documentario di Stefano Rogliatti che racconta solo una delle tante storie del nostro territorio, antica quanto le tradizioni. Il bue grasso piemontese, i luoghi e le persone che lo hanno allevato fino a renderlo il prodotto d’eccellenza che è oggi, eppure di questo aspetto del cibo si parla molto meno.

Di prodotti e storie come questa l’Italia ne ha centinaia, e se rimangono più in ombra forse è solo perché non sono commercializzabili quanto un talent show.