Per una strana serie di eventi, l’estate scorsa ho girato l’Uganda su un van 4×4 che poteva avere la mia stessa età ma che rispetto a me era stato lavato molto meno. Ogni volta che lo racconto a qualcuno, la prima domanda è: “Ma in Uganda a far che, che cosa c’è in Uganda?”, sempre.
Poi, sempre per una strana serie di eventi, mi sono ritrovata sul profilo Tumblr di Michele Sibiloni. Le sue foto parlavano delle notti tiepide, lunghe e nere di Kampala, dei night club dove chiunque ti direbbe di non andare, di animali notturni, di cani sciolti e uccelli africani crestati, di minigonne di gambe graffiate e soldati addormentati, stretti ai loro AK47.
Capirete che, a questo punto, dovevo parlargli per forza.
Come mai hai scelto proprio Kampala?
Mi sono trasferito in Uganda alla fine del 2010. In quel periodo, il Sud Sudan si stava preparando all’indipendenza e in Uganda – governata dallo stesso presidente da venticinque anni – si sarebbero tenute le elezioni.
C’erano conflitti all’est della Repubblica Democratica del Congo, in Kenia e in Ruanda. L’Uganda mi è sembrata un posto strategico dal quale potermi muovere: avevo qualche contatto, e ho pensato che avrei potuto lavorare come freelance. Così ho comprato un biglietto di sola andata.
Il sito governativo per la richiesta del visto presenta l’Uganda come “il paese dei Gorilla di Montagna e delle sorgenti del Nilo, dove godersi la natura, il rafting e una vibrante vita notturna”. Quando l’ho letto, ho pensato: “Ma come, in Uganda?” Tu fotografi da cinque anni le notti di Kampala e le persone che le vivono: ci spieghi com’è nato questo progetto?
Sul mio volo per l’Uganda ho incontrato un ragazzo ugandese che tornava dall’ Iraq, dove lavorava per una compagnia di sicurezza e si è offerto di portarmi in giro per Kampala. La stessa notte in cui sono arrivato mi sono ritrovato ad esplorare la città, fui immediatamente catturato dalla vita notturna, dal modo in cui le persone ballavano e da come si godevano la vita.
Sono stato attratto anche dagli Ascaris, le guardie notturne con addosso lunghi trench o cappotti, che spesso ritrovi addormentate con le loro vecchie armi tra le gambe o appoggiati ad esse, qualche volta ubriachi. Ero curioso e volevo sapere chi erano quelle persone, da dove venissero e quanto guadagnassero. Incominciai a fotografarli, non è un caso se la prima foto in Fuck it sia di un ascari.
Volevo fotografare la notte e tutto ciò che ne faceva parte. Era così diverso da dove venivo. La notte e le avventure notturne hanno sempre fatto parte di me, portandomi a sperimentare una serie di incontri casuali.
Il tuo progetto è diventato un libro: Fuck it, e il titolo rende l’idea di quanto ai soggetti degli scatti importi dell’opinione di chi li osserva. Com’è essere un bianco con una macchina fotografica in un paese dove non se ne vedono poi tanti?
All’inizio le persone possono essere un po’ preoccupate, perché in Uganda non hanno un buon rapporto con la fotografia, che è spesso associata ai tabloid scandalistici.
Il mio approccio è di fotografare in modo istintivo, senza chiedere il permesso, anche se la persona mi sta guardando. Facendo in questo modo, ho scoperto che la tensione tra me e il soggetto rimane alta, e mi piace molto. Mi mostro sicuro anche quando non lo sono.
Dopo aver scattato, parlo con loro e spiego quello che faccio. A volte, se c’è una certa sintonia, ci rivediamo per bere o mangiare qualcosa e scattare altre foto che, quando possibile, lascio loro.
Il tuo profilo Tumblr, Ballets and Kidnapping, è così realistico da essere quasi brutale. Come scegli i tuoi soggetti e cosa vuoi comunicare?
Il mio blog è una documentazione che avviene attraverso le mie esperienze di vita personali. Spero che chi guarda venga trascinato dai miei viaggi, spero che vedano un luogo che non avevano mai immaginato esistesse, spero che guardare generi domande, spero che comprino il libro!